Cronache dalla quarantena
Il 22 marzo sono andata a fare la spesa in un negozio di alimentari a pochi passi da casa, in un piccolo paesino nel Nord-Est di Milano. Proprio di fronte al supermercato c’è una Chiesa, dove ho frequentato il catechismo e andavo a messa, fino alle medie. Di fianco, un parco con i giochi per bambini, di quelli che da piccoli ti piacciono tanto da passarci interi pomeriggi con gli amici.
Era sabato mattina e stavo facendo la spesa. Mi ero vestita bene, approfittando dell’unica occasione per uscire da dieci giorni a quella parte. Invece mi sono ritrovata in mezzo a una coda che faceva quasi il giro dell’isolato, con persone attrezzate di mascherine e guanti, pronte a fare scorta per le prossime settimane. Ad un certo punto, dopo circa 40 minuti di attesa, una ragazza ci è passata accanto facendo jogging: “Chiamo i Carabinieri!” ha urlato una signora anziana, con la sciarpa tirata fino alle pupille. “Questi giovani!” ha detto un’altra quando la runner ha fatto un secondo giro, rispondendo in modo non meno aggressivo agli attacchi ricevuti.
La stessa scena si era ripetuta con modalità non dissimili poco prima, quando una ragazza di circa trent’anni si è affacciata al sagrato della Chiesa portando a passeggio il cane. “Guardi che lei è già fuori da troppo tempo, ma non ha ancora finito?” ha fatto notare un anziano in coda che evidentemente aveva preso a cuore la battaglia del Viminale, minacciando denunce e chiedendo ai passanti di mostrare le loro autocertificazioni. Siamo in quarantena, bisogna stare a casa.
Se qualche settimana fa mi avessero detto che presto l’Italia sarebbe stata blindata, avrei pensato che fosse un’altra delle tante bufale diffuse per racimolare qualche voto. In fondo, a quel tempo il coronavirus era “solo un’influenza”, Milano non poteva fermarsi: e allora tutti a fare aperitivo, a mangiare al cinese per mostrare solidarietà, a ballare in discoteca dopo aver scandagliato l’Esselunga per comprare l’ultima confezione di Amuchina. Un errore di comunicazione madornale, diffuso anche — in buonafede, certo — da autorità e rappresentanti delle istituzioni, gridato sui social e nelle stazioni della metro.
Invece, poi, Milano si è fermata. Ha inchiodato, e fatto inversione a U. I primi casi positivi, poi i primi morti: 78 anni, 67, 85… “Ma sì, sono tutti anziani”. Era il 23 febbraio.
Gli ospedali hanno iniziato a riempirsi, i contagiati a moltiplicarsi senza sosta. In Lombardia ci sono 39 strutture attrezzate per la terapia intensiva, per un totale di 1.067 letti disponibili: più che in tutte le altre Regioni, ma ancora non abbastanza. Nel momento in cui scrivo, il 22 marzo, la pandemia di Covid-19 ha colpito l’Italia causando 5.476 morti — un record che nessuno ci invidia — e quasi 60mila contagi, secondi solo alla Cina, paese d’origine del virus.
Il Sistema Sanitario Nazionale, pubblico e gratuito, è allo stremo e in rete e ai Tg circolano foto di infermieri con il volto segnato dalla stretta delle mascherine, indossate per turni massacranti insieme a guanti, tute, visiere. Protezioni da trincea per combattere un nemico invisibile, ma letale quanto la canna di un fucile. “Aiutateci, siamo al collasso” è il grido d’allarme disperato che arriva dai reparti di Pronto Soccorso, sommersi di persone che non riescono a respirare, dagli ospedali che curano i pazienti nei corridoi e dall’esercito di medici e infermieri, veri protagonisti di questo pezzo di Storia, che si inventano un respiratore sdoppiato nel giro di pochi giorni, per salvare qualche vita in più.
Tutti a casa, quindi: l’11 marzo il premier Giuseppe Conte chiude il Paese, “l’Italia è blindata” titolano i quotidiani e il mantra “Io Resto a Casa” si diffonde a macchia d’olio. Tutti si riscoprono patriottici: la pizza fatta in casa, il tricolore fuori dalla porta, le raccolte fondi milionarie e i flash mob dal balcone, quando interi quartieri intonano l’Inno cantando più forte che ai Mondiali del 2006.
Dall’altra parte, però, rimangono le fabbriche e gli uffici aperti, i supermercati da rifornire, le acciaierie che è impossibile spegnere: la pandemia non ferma l’Italia che produce, fino a quando i posti in terapia intensiva finiscono. E allora, forse, è il caso di ripensarci: alle 23:30 del 21 marzo Conte si presenta in diretta Facebook e annuncia lo stop a tutte le attività produttive non essenziali.
Quindi eccoci qui, 60 milioni di persone in quarantena. Scuole e Università sono chiuse dal 9 marzo (in Lombardia, la mia Regione, dal 23 febbraio) e le lezioni si fanno online, con i compiti telematici che nessuno sa bene come interpretare. I laureandi si siedono davanti al computer e discutono la Tesi senza pubblico, davanti ad una Commissione virtuale, poi fanno “termina chiamata” e tutto è come prima.
Le giornate di primavera passano lente, il tempo è scandito dalla sveglia un po’ più tardi che compensa il mancato tragitto verso il luogo di lavoro, la tazza di caffè accanto al pc e le mille mail e teleconferenze organizzate per ricevere comunque lo stipendio a fine mese. Ci reinventiamo cuochi e podisti, si riprendono i rapporti troncati perché “scusa, ero troppo impegnato” e anche la sala da pranzo diventa un’ottima palestra, con un po’ di fantasia.
Quando questo incubo sarà finito, torneremo a sbuffare per il troppo traffico e per il parcheggio che non si trova mai, la metro piena la mattina e la coda per il caffè al banco. Ma torneremo anche negli stadi a fare il tifo, a urlare nei parterre dei concerti d’estate, ad affollare le stazioni e gli aeroporti. A ridere insieme guardandoci negli occhi. Uscire a respirare, a correre, a bere e a mangiare, a guardare le stelle, che comunque non si sono mai mosse. A visitare i nonni a meno di un metro di distanza, ad abbracciarci senza paure, quando sfiorarsi non sarà più contro la legge. E torneremo a dire “aspetta, sto arrivando”.